Miglior Film Internazionale, Miglior Film di Animazione e Miglior Documentario, Flee è il primo titolo nella storia del cinema a essere nominato in queste tre categorie. È un prodotto ibrido, ricco di invenzioni e al contempo semplice e immediato, senza retorica e maniera; la sua, un’attualità frustrante e dolorosa.
Amin ha 36 anni, vive in Danimarca, insegna in università e sta cercando casa con il suo compagno. Nessuno però, nemmeno il suo futuro marito, conosce la vera storia di Amin e della sua famiglia. Flee ripercorre questa odissea di dolore, violenza e disperazione, dall’Afghanistan alla Russia, fino in nord Europa.
Jonas Poher Rasmussen, regista e documentarista radiofonico, incontra Amin (uno pseudonimo) negli anni ’90, sono due studenti liceali che prendono lo stesso treno, diventano amici. Amin è un rifugiato politico, scappato dall’Afghanistan funestato dalla guerra civile, schiacciato tra le ingerenze di Stati Uniti e Russia, in Danimarca è solo, ma è intelligente, socievole, non si lascia schiacciare dalla tragedia che porta con sé. All’assistente sociale che lo segue chiede delle medicine, vuole guarire le dice. Lei non capisce, sembra stare bene.
Mi piacciono gli uomini, le spiega Amin, in Afghanistan quelli come lui non esistono, vuole guarire, è la sua possibilità di ricominciare, di essere normale. Non è una malattia, non è un problema, lo rassicura l’assistente sociale. Per lui ha inizio una nuova vita.
Finito il liceo Jonas inizia a fare documentari radiofonici, chiede ad Amin di raccontargli la sua storia, ma nella sua fuga dalla guerra ci sono traumi e segreti che ancora lo tormentano. Sotto la superficie di una storia dolorosa nascoste ci sono sofferenze e ferite ancora più profonde: per salvarsi ha dovuto raccontare una bugia straziante.
Non puoi dire niente a nessuno, gli dice il trafficante che lo spedisce in Danimarca. Non puoi dire niente a nessuno, gli dice il fratello, lontano, in un altro Stato. Amin teme per la sua incolumità, per quella della sua famiglia. Potrebbero espellerlo dal Paese, rimandarlo in Afghanistan, perdere tutto. Jonas capisce che non è il momento giusto, l’idea del documentario viene messa in stand by.
Anni dopo Jonas capisce come poter aiutare Amin a raccontare la sua storia, a liberarsi dei suoi segreti, in modo sicuro per tutta la sua famiglia e le persone coinvolte, un documentario animato.
Amin da una parte vuole liberarsi di questa zavorra perché capisce che continuare a portare con sé questo segreto vuol dire allontanare le persone vicino a lui, dall’altra vuole condividere la sua storia con il mondo per raccontare alla gente cosa significa realmente “fuggire”.
L’animazione regala così ad Amin una maschera, gli garantisce l’anonimato e contemporaneamente gli restituisce la sua voce. A intervallare l’animazione che ricostruisce la storia di Amin troviamo gli stralci di filmati tratti dai telegiornali d’epoca, filmati d’archivio della vita quotidiana in Afghanistan e a Mosca durante gli anni ’80 e ’90.
A partire dalla scomparsa di suo padre a Kabul, quando Amin era un bambino, arrivando poi a Mosca, devastata dalla povertà e dalla corruzione in un mondo post URSS, dove con la madre e uno dei fratelli maggiori cerca disperatamente di fuggire, intrappolato in un limbo fatto di miserie e oblio – i documenti sono scaduti, nessuno di loro esiste, non possano abbandonare la Nazione – si delinea un coming of age fatto di attese, silenzi, speranze e fuge (flee).
Jonas Poher Rasmussen trasporta su schermo una storia dolorosa e attuale, piena di sofferenza, lo fa con un documentario animato che parla di una Storia infame e sporca, in cui una mano tesa è miracolo, una luce accecante in grado di ridare a un’esistenza piena di cicatrici la scintilla necessaria per continuare a sperare.
Dopo averlo visto sarà impossibile ascoltare Joyride dei Roxette senza pensare a un ragazzino afgano che nel momento più buio della sua vita ha ancora la forza di innamorarsi, di farsi conquistare da un gesto gentile, di non cedere alla consapevolezza della crudeltà che incombe sul mondo.